GIANCARLO GELSOMINO
Testi Critici per la mosta Cè chi dà i numeri e chi fa gli alfabeti 1990 & 1991
ROSSANA BOSSAGLIA
DARIO MICACCHI
MATTEO FOCHESSATI
GIANCARLO GELSOMINO
ROSSANA BOSSAGLIA
Professore di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Pavia e di Critica d’Arte
all’Università di Genova
Sull’Antologia di Spoon River la mia generazione ha sparso eccitate lacrime, emozionati sorrisi, nell’ansia di conquistare un altro poco di America dopo, e insieme, all’ebbrezza che le avevano procurato Steinbeck, Saroyan, Faulkner ed Hemingway. Era un riconoscere a un tempo il diverso e l’eguale, quel che ci sorprendeva e quel che ci accomunava. Fatalmente, con gli anni, assimilata questa letteratura come parte della nostra giovinezza, noi ci identifichiamo con essa, o almeno, essa si è amalgamata con il nostro passato. Ma Giancarlo Gelsomino è giovane, sta facendosi il proprio bagaglio di esperienze interiori e, mi dice, trova in queste poesie uniti Guernica e Hopper, le sculture africane e i graffiti australiani, il respiro breve ancorchè geniale dell’artigiano a la riflessione filosofica dell’intellettuale. Da anni rimastica dentro di sé il significato dell’Antologia di Spoon River – che egli ama citare con il titolo originale “Antologia delle belle pianure”-, sempre più immedesimandosi in questa enciclopedia della vita (che è tale proprio nel momento in cui costituisce una sequenza di epitaffi) e commentandola con un’incisione simbolica e duecento-quarantatre disegni – press’a poco quante sono le poesie -. La rilegge con la sua ottica, secondo il suo taglio interpretativo, in una sorta di drammatica elegia che è anche un atto di esasperato amore per la sua Genova: città affascinante, misteriosa e contradditoria quant’altre mai. Il tratto è veloce, sferzante a seconda dei casi, percorso da vibrazioni continue, come fosse una scrittura non ancora decifrata o troppo sommaria per essere comunicata in termini di logica: anche là dove l’immagine che ne risulta ha una sua chiarezza naturalistica.
Qualche volta appare davvero una pioggia di lettere frementi, quasi un’esplosione del discorso che si frantuma, precipita e si ricompone secondo un ordine che non è più quello del linguaggio; ma per lo più il segno è soltanto imitativo rispetto a segni alfabetici: tuttavia mantiene la stessa allusività corsiva di una rapida pagina di diario. Ogni immagine è pervasa di quell’eccitazione creativa per la quale l’opera di Gelsomino non si presenta mai con zone morte, bensì brulicante di espressività. E questo dico non soltanto a proposito dei disegni che commento nell’attuale occasione, ma di tutta la sua produzione: quando raffigurava architetture e visioni urbane a tempi più lunghi e pacati, vi imprimeva nondimeno il senso di una tensione fantastica – in quel caso lirica – che insieme avvinceva e sgomentava. C’era già allora, e tanto più in questa nuova serie di immagini, quella capacità di trasmetterci un senso di precarietà e i allarme che connota tutta l’attività di Gelsomino e la sua idea dell’arte; anche se niente nelle sue opere è vago o sfumato. Nell’una e nell’altra maniera, infatti – e nelle varie maniere che si possono riconoscere in questa sequenza di disegni realizzata durante alcuni anni – Gelsomino dimostra una padronanza straordinaria dei mezzi espressivi, quella che si definisce una “mano” singolarmente originale e docile alla spinta emotiva, scorrevole e forte. Ma essa è davvero il mezzo; mai vi si leggė narcisistico compiacimento; la stessa attività artistica è per Gelsomino mezzo di intenzioni “altre”. Nella sua passione – non soltanto in quello che dice e argomenta, ma appunto in quello che fa come artista – è evidente il disgusto per i formalismi fine a loro stessi, e anche per i concettualismi nei quali l’attività artistica finisce inerte per rispecchiarsi. Certo, egli sa, come tutti sappiamo, che l’esperienza concettuale, disprezzando la volgarità del puro mestiere, ha insieme difeso l’arte dalle estenuazioni stilistiche; ma va oltre: con un gesto difeso l’arte dalle estenuazioni stilistiche; ma va oltre: con un gesto coraggioso e ambizioso Gelsomino riporta l’arte alle sue alte motivazioni, la identifica con il mezzo più sintetico e intenso per esprimere cose grandi e dare testimonianza morale. Questo egli intende dire; e ha molte cose da dire. Guardo con ammirazione al suo pennello bruciante.
DARIO MICACCHI
Critico d’Arte
Nella vita e nel lavoro di un pittore o di un scultore, per quanto possa aver dipinto o scolpito, e anche nella vita e nel lavoro di un critico d’arte, per quanto possa aver visto e scritto, cè sempre almeno un’opera prediletta: e non soltanto per la bellezza plastica e per la qualità morale ma anche per un valore enigmatico che no si riesce a decifrare con le sole ragioni estetiche.
Ed è un dipinto o una scultura che uno si porta dentro la mente e il cuore per tutta la vita.
Certo, uno conosce e ama sempre nuove opere: ma quella è lì, affondata nel profondo dell’io, che manda ininterrottamente segnali inquietanti, angosciosi, di disturbo, di pressanti inviti a gettare scandagli là dove non s’è mai messo il piede e tentato un percorso qualsiasi, libero e avventuroso. Wagner nella Tetralogia creò quel fantastico personaggio di Amfortas che ha una ferita che non chiude mai. Può una pittura, antica o moderna, essere una ferita? Credo proprio di si.
La visione della gran mole del materiale che Giancarlo Gelsomino mi ha mandato perché provassi a scrivere un testo per il catalogo di questa sua mostra è stata per me una rivelazione per il tremendo senso di dolore che viene da una figura umana umiliata e offesa, arsa, bruciata, incenerita, ferita in mille modi, eppure in piedi. Una figura umana che, nella materia del legno e nella forma violentata che ha preso, dichiara il costo altissimo che oggi l’uomo paga per restare umano. Superata la stupefazione per l’identità che da un punto di vista esistenziale lega l’immaginazione tormentata e enigmatica di Giancarlo Gelsomino ai materiali che egli usa per le sue immagini e al modo stesso di e come li tratta col suo metodo feroce e amoroso per arrivare alla ferita: ho sentito salire delle pulsioni ossessive da quel dipinto che da decenni è affondato dentro di me. Questo dipinto è l’altare di Colmar: un grande polittico dipinto, tra il 1512 ed il 1515, per la chiesa del convento di S. Antonio a Isenheim da Mathis Grünewald così fiammeggiante per le vesti rosse e per i gesti di supremo strazio intorno al Cristo appeso che è già notte. Ma non è questo sublime Cristo, che espone la violenza subita nella terra desolata, che da decenni giace nel profondo della mia mente e del mio cuore mandando segnali.
È l’altro Cristo, quello deposto, steso ai piedi dell’altare, di carne verdastra marcia, che è trafitto da mille e mille spine su tutto il corpo. Ho provato a contare molte volte queste spine e non sono mai riuscito ad andare in fondo ed a contrale tutte. Grünewald, che le ha dipinte una per una su quel corpo in putrefazione, non so come abbia potuto farlo: forse, per un dolore suo e di tuta la Germania schiantata e ferita, per i contadini ribelli e sconfitti col compromesso di Lutero, per tutto quello di atroce che aveva visto. Certo è che il rapporto tra quel corpo di Cristo e la sua mano e la sua immaginazione è delirante di dolore, è un rapporto di identità, un enigma pittorico che nessuno potrà mai sciogliere con la sola analisi estetica. È questo corpo di Cristo trafitto da mille aculei che mi ha mandato segnali: stai attento, le pitture e le sculture di Giancarlo Gelsomino con tutti i suoi aculei, i suoi detriti fusi nelle forme, il suo nero funebre ed eroico, non hanno nulla in comune con il selvaggio (tedesco) che è di moda e di mercato e nemmeno con il nero dei tronchi bruciacchiati dove lo scultore Nunzio cola il piombo con una raffinatezza funeraria e decorativa assai elegante, volgendo in decorazione “Apostoli” guerrieri. Fortissima è l’identità poetica e morale dello scultore. Dietro e dentro di lui c’è una cultura forte; ma non è uno scultore che ricicla immagini e stilemi saccheggiando qua e là, alla maniera dei transavanguardisti onnivori, la miniera inesauribile dell’arte moderna. Proviamo, per cenni, a ricostruire il folgorante percorso di Giancarlo Gelsomino. Comincia, apparentemente come un classico e un osservatore della crisi esplosa nel Cinquecento con la Maniera italiana. Fa disegni analitici assai belli da Andrea del Sarto, Mariotto Albertinelli, Jacopo Pontormo, Leonardo, Michelangelo (la pulitura della volta della Sistina ha rivelato il gran colore manierista di Michelangelo), Pellegrino Tibaldi, Salviati, Muziano, Vasari (e anche da David, Ingres Degas, Picasso). Ma il suo sguardo non si fissa sulla figura intera o sul rapporto critico tra forma e spazio. Non a caso l’occhio seleziona le vesto, i mantelli, la straordinaria immaginazione di pieghe che certi autori del ‘500 ebbero in una specie di ossessione visiva stralciando il panneggio dal corpo portante. Ecco, la prima grande intuizione strutturale e psichica dello scultore: le pieghe sono monti e catene di montagne, calanchi e valli, anfratti dell’io profondo portati alla luce sul foglio o sulla tela per dire di che è fatto un uomo, fosse pure angelico, a; transito epocale del ‘500: un insieme di picchi aguzzi e taglienti e di voragini abissali. Quando dipingerà la Virtù, in realtà dipinge dei non-luoghi (nel senso cercato da Jean Dubuffet); dei vuoti, abbandonati spazi dove non ci sono più virtù. Tutto il perido splendido dei disegni da disegni è una pressa di coscienza in senso anticlassico. L’analisi delle pigche procede contemporaneamente con la presa di coscienza di sé come artista in una realtà di spaventosa violenza.
Ecco l’evidenza nuovissima dei materiali dal legno martoriato ai trucioli, dal metallo al nero, dalle spine al fino spinato. È possibile che la condizione orrida dei Palestinesi in cerca e in lotta per una propria terra, giorno dopo gironi, abbia orientato la pittura e la scultura, come anche i referenti culturali: dal primo Fieschi purulento al Vedova antifranchista dal Gorky degli aculei dei cactus e delle agonie al Pollock più esistenziale che arriva al nero per la via di Orozco, Siqueiros e Picasso; dal nero degli abiti e delle notti frugate dallo sguardo allucinato di Beckmann al filo spinato delle trincee della guerra dipinta e incisa da Otto Dix.
Ho ricevuto una sua lettera mentre preparavo appunti e scalette per salire più in alto e riuscire a vedere la ricchezza e la complessità di questo giovane e novissimo artista. Mi scriveva, fra l’altro: ‘…Intendo che questo mio agire tra pennelli e scalpelli serva a qualcuno, innanzitutto a chi non ha voce, poi a chi deve attingere coraggio e rabbia per perseverare nell’itinerario della solitudine ed emarginazione (non mi risulta che vi siano altre strade per chi lavora seriamente)”.
Sono parole, queste, formate a forza di scalpello. E mi ricorava di avere letto su un muro della Facoltà di Architettura, a Palermo, questa frase: “Chi è capace di sognare è ancora un uomo libero”. Io credo che i sogni più realistici, quelli che ti fanno saltare sul letto, siano i sogni generati dell’eros e dal dolore anche quando è una memoria lontana a sputarli sulla battigia del presente, qui e ora. Giancarlo Gelsomino è uno che sogna su una realtà feroce e mostruosa: è la sua straordinaria e bella energia di artista attuale e senza etichette critiche.
Verrei chiedere a lui, che ha così forte coscienza degli umiliati e degli offesi, quali sogni potranno mai fare i fanciulli palestinesi o anche quelli neri che non sapevano che ci fossero reticolati nella città dove hanno potuto lavorare Leonardo e Michelangelo, due per tanti altri italiani e stranieri. Ma la riposta Giancarlo l’ha data: nero di terra bruciata, filo spinato, nero di fuochi, ferrite che non rimarginano. Il qualche immagine con fili spinati che avvolgono pali infissi sul mare o sulla riva nel cielo profondo di un intenso azzurro volano a vortice numeri fatti a china o con i trasferibili: forse, vengono da computers lontani impazziti e non più controllabili. Ancora una volta un segnale allarmante e un enigma. Anche Osvaldo Licini mandava in cielo lettere dell’alfabeto e numeri e anche qualche angelo ribelle; ma quelli erano lettere, numeri e angeli buoni. Questo di Giancarlo Gelsomino è un pulviscolo pauroso che viene da lontano, forse ancora da Cernobyl che in tanti hanno dimenticato o da qualcosa di nuovo che è saltato e non sappiamo. Comunque numeri come uncini e come lame, e impazziti e portatori di pazzia. Speriamo che gli “apostoli” guerrieri dello scultore/pittore, infissi nella terra come antichi totem, non li lascino passare. Per tre anni Gelsomino ha lavorato ad un’opera porta il titolo “Cè chi dà i numeri e chi fa gli alfabeti”. Le parole sono false e gli alfabeti corrotti per far violenza all’uomo; ora tocca a infiniti stormi di numeri che da lontane covate di computers migrano in tutti i cieli: ancora allarme ed enigma. Può la tecnologia informatica produrre ferite? Credo proprio di sì. Il bastone, la lama, l’arma da fuoco ancora si potevano controllare: la ferita e la morte elettronica di massa, no.
MATTEO FOCHESSATI
Curatore e professore di Architettura Urbana
Per la mostra al 44 Rosso, circolo culturale gastronomico, Genova
Questa mostra ha il valore di un teorema. E in un certo senso rappresenta una scommessa ed una provocazione. In essa Giancarlo Gelsomino ha inteso vagliare le potenzialità liriche del suo lavoro e porre la questione di una modalità del fare artistico che, in linea con alcune tendenze della più recente ricerca, affronti l’esigenza di ripartire dalla storia dell’arte. Una scelta operativa che non prevede un incondizionato ritorno alla tradizione nè una riflessione interna ai peculiari meccanismi dell’espressione artistica, ma che piuttosto intende circoscrivere un campo di ricerca, in qualche modo definito e storicizzato, in cui sia possibile manifestare direttamente le proprie pulsioni esistenziali. Si tratta pertanto di coniugare il potere evocativo del gesto artistico con un’esigenza di interiorizzazione che, in questo momento storico, non si propone come atto di volontaria autoesclusione, ma come possibile via praticabile per la comprensione dei fenomeni. La ricerca di Gelsomino, nell’ambito di queste coordinate teoriche, non ha ancora sviluppato una sua legittima definizione. Come si può riscontrare in questa mostra, si muove ancora in una fase progettuale. Nelle opere esposte infatti il genere paesaggistico e la tecnica illustrativa sono stati assunti a scopo dimostrativo: per un scelta di poetica che non si conciliava con le caratteristiche del suo lavoro precedente o che comunque necessitava del riepilogo di una pratica operativa, su cui innestare la propria determinazione artistica. E tuttavia, in tale contesto, è bene evidenziare come la rottura degli schemi di ricerca sia attenuata dalla persistenza di valori esistenziali che, se in precedenza si esplicavano in una sorta di prolungamento nell’opera del gesto artistico, qui sono dichiarati da confronto con una determinata realtà geografica, filtrata nei suoi simbolici dalla rimeditazione su alcune specifiche esperienze artistiche e, più in generale, dal ricordo della tradizione paesaggistica ligure.
Come si diceva all’inizio, tuttavia, questo corpo di lavoro va inteso peculiarmente nel suo valore speculativo, in quanto la ricerca della qualità appare secondaria rispetto alla evidente di riappropriazione di una tecnica e di un genere, assunti concettualmente come cursori di un’inedita progettualità.
Queste opere si pongono quindi, essenzialmente, come testimonianze concrete del momento sperimentale di una fase operativa transitoria. E comunque, pur riconoscendo in esse tali caratteristiche e lo stravolgimento provocatorio dei loro limiti, vanno intese al di là un esclusivo valore mentale. La storia di questi paesaggi – reali, ma immaginari, in relazione alla loro funzione simbolica, e percorsi da un furore descrittivo che, in taluni casi, travolge l’equilibrio dell’immagine – so trova un suo effettivo collegamento con un preciso contesto fenomenologico. La colonna sonora, integrate la rappresentazione visuale della mostra, più che fungere da chiave di lettura delle opere, stabilisce infatti una conferma del clima culturale e dell’atmosfera esistenziale, in cui esse sono state progettate e realizzate.
GIANCARLO GELSOMINO November 1990
Quando l’occhio riesce a sottrarsi alla visione che lo condiziona, allora si può ben dire che l’esercizio e l’applicazione a veder meglio comincia a manifestarsi.
Non è poi così scontato ricordare che il nostro sguardo è subordinato da ciò che dimora in noi e che costituisce la personalità dell’uomo e dell’artista.
Dall’informazione sviluppata da chi detiene l’interno panorama dei mezzi di comunicazione, fino alle proprie concezioni, idee, paure, desideri, bisogni, tutto contribuisce a falsificare il nostro vivere. Saper distinguere diventa un’obbligo di coloro che attraverso l’arte intendono riportare la percezione al suo stato originario, finalmente libera da schemi che la alterano, la mutilano e la deformano. Queste le premesse IN BELLO STILE. Due note di accompagnamento: stavo rividendo. G.B. Piranesi, lo sondavo attraverso il lavoro dal titolo “votami” (presente in mostra), mentre rintracciavo il segno delle
“carceri” e delle “rovine romane”, mi sono stati commissionati 20 disegni o tecniche miste; Indubbiamente influenzato dall’uso del pennino e della china ho scelto il percorso dii cogliere istantanee dal vero della terra ligure.
Se per Piranesi il Colosseo e gli scheletri dall’antichità costituivano motivo d’intuizione e modo di manifestare un’incommensurabile capacità tecnica, per me, il cielo il verde e il mare da levante al ponente sono diventati spunto di concentrazione e di disciplina: un’ allenamento della mano come esercizio della mente è lo studio.
– Sono riconoscente a chi mi ha dato l’opportunità di esprimermi in quello che considero un’ esperimento, un’ occasione di ricerca che solo l’incontro col collezionista attento può permettere di approfondire. Un tentativo di collaborazione (caro al ricordo della città nei secoli passati) che tende a colmare l’incancrenita assenza dell’intervento pubblico.
Come voce di chi opera non temo di passare per noioso se approfitto dell’occasione per sottolineare che: le operazioni culturali sono pressoché inesistenti perché chi si occupa di pittura o scultura, musica o teatro, cinema o video conta meno di chi si dedica alla politica. Coloro che dirigono musei, amministrano biblioteche, scuole, istituti culturali, hanno rilevanza insignificante rispetto a chi controlla aziende o gestisce denaro pubblico o privato.
Forese è opportuno usufruire di quelle rare possibilità in cui delle individuali personalità dell’imprenditoria offrono al mondo dell’arte e della cultura piccole iniziative in luoghi anomali che possono rivelarsi nel tempo tappe importanti nell’itinerario di un’artista.
Presentare dei lavori che sono solo una sfida alla propria maniera d’essere può benissimo venir interpretato come un semplice esercizio stilistico, ma uno degli scopi dell’”illustrazione” non è di chiarire un’aspetto del soggetoo?