GIANCARLO GELSOMINO


Testi Critici per la Mostra When I’ll have the wind between my hands 1994

FRANCO SBORGI
Critico d’arte, professore di Storia dell’arte, Università di Genova


L’ultima ricerca di Giancarlo Gelsomino sembra essere prevalentemente indirizzata ad indagare le possibilità di nuove relazioni comunicative tra territori culturali, almeno in apparenza, distanti e divergenti tra loro.

L’incontro sempre più frequente, che Gelsomino ha cercato in questi ultimi anni – attraverso la propria istintività operativa piuttosto che con qualsiasi processo razionale-programmatico o ‘a priori’ – con culture ‘altre’ rispetto a quella europea degli anni Settanta/Ottanta in da lui stesso plasmato, ha portato all’intensa effusione di opere come il ciclo Indjala-Ju, legate alla sua recente visita in Australia.

L’impatto con la millenaria cultura mitica degli Aborigeni Australiani scatenò un profondo processo di trasformazione nell’opera di Gelsomino, che ne uscì particolarmente arricchita, sia nelle componenti mitiche e fantastiche, sia negli stessi processi operativi: rafforzati, questi ultimi, dalla ricerca di quella primalità del linguaggio, che è, in una certa misura, la direzione verso cui tende gran parte del lavoro più recente dell’artista.

Non mi soffermerò a specificare le motivazioni – particolarmente suggestive, a dire il vero – di quel rapporto che si è venuto a creare attraverso l’intreccio del mondo espressivo dell’artista con l’immaginario mitico-poetico della cultura Aborigena Australiana: per me è una cultura del tutto sconosciuto nelle sue caratteristiche sostanziali. Anche se, certamente, l’entusiasmo di Gelsomino alla luce di questa esperienza di immagini, così dense di significato e di profondità comunicativa, è particolarmente coinvolgente.

Alcuni testi presenti in questa pubblicazione, inoltre, indagano il senso più interiore di questo rapporto e la riflessione culturale ed emotiva che Giancarlo ha trovato in culture così diverse dalla nostra con particolare sensibilità. Mi interessa qui piuttosto riflettere sul carattere di questa esperienza, avvenuta in un momento importante dell’intero percorso operativo dell’artista: quasi una naturale conseguenza di alcuni presupposti perseguiti nel corso degli anni, e che coinvolgono tanto il significato di dell’operazione artistica – e del posizionamento stesso dell’artista di fronte alla propria contemporaneità – come elaborazione di un linguaggio specifico, volto a tradurre esperienze esistenziali totalmente coincidenti con le scelte dell’arte.

Devo forse premettere che questi incontri ravvicinati con altri immaginari uniscono esigenze più propriamente formali con intenzioni di carattere etico-esistenziale.

L’approccio di Gelsomino a questa cultura, infatti, non sembra essere improntato a quell’interesse per il ‘diverso’ in sé (in termini di prospettiva esotica, o di recupero di suggestioni intellettuali o intellettualistiche del mito) che ha caratterizzato varie esperienze nel corso degli anni Settanta e Ottanta: risolvendosi talvolta in un puro rinnovamento dei motivi decorativi. Mi sembra che alla base delle scelte stesse dell’incontro ci siano ragioni etiche, politiche ed esistenziali intrecciate con quelle non specificamente formali.

A esaminarle attentamente, infatti, la scelta degli ambiti e degli ambiti di riferimento o di interrelazione seguono una sorta di filo rosso che li unisce: si tratta davvero di culture ‘marginali’, ad alto livello di conflittualità, tese ad affermare il diritto alla la propria identità, sia culturale che politica.

Le tappe di questo itinerario hanno portato Gelsomino, di volta in volta, a confrontarsi con la realtà dei Territori Palestinesi Occupati, con l’isolamento della rivoluzione cubana, con le contraddizioni della Sicilia, fino al cosmo culturale ed etnico dell’Australia. Cultura aborigena: in bilico tra la conservazione di una memoria atavica gelosamente custodita e l’approccio che tende alla cancellazione dell’identità attraverso il contatto sempre più coinvolgente con la cultura urbana e industrializzata.

Ma quella che poteva trasformarsi in una curiosità puramente intellettuale nei confronti di un “diverso”, più o meno mitico o rivoluzionario, diventava occasione, per Gelsomino, per una riflessione più attenta sulla capacità comunicativa del proprio linguaggio espressivo. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che tali esperienze non si sono limitate ad un filtraggio attraverso un’operazione ridotta ai vincoli relativamente sicuri del proprio contesto culturale, semplicemente a livello della memoria: ma hanno invece tentato un rapporto comunicativo sullo stesso campo di azione come queste culture.

I murales Cubani di Gelsomino (in cui la cultura rivoluzionaria si intreccia con il mito esistenziale di Hemingway, anima errante di questi luoghi), le mostre insieme ad artisti palestinesi, europei e australiani nei Territori occupati, il confronto con le tracce complesse e frammentate del La cultura aborigena, divenne di volta in volta non solo esperienze politico-esistenziali, ma generatrice dell’evoluzione stessa della lingua.

L’eterogeneità e l’intensità dei contatti, il carattere spesso immediato e sintetico delle forme comunicative di quelle aree culturali sono infatti entrati a prendere parte, non solo a livello iconografico, ma nella stessa proessualità operativa.

Allo stesso modo, si è rafforzato l’interesse già presente per un arricchimento comunicativo, che talvolta sfocia in operazioni collettive e comunitarie, attraverso lo scambio di esperienze di linguaggi multimediali diversi.

Chi conosce il percorso dell’artista non può non notare l’evidente mutazione rispetto, ad esempio, alle opere della seconda metà degli anni Ottanta, in cui l’esigenza narrativa era più esplicita, insieme ad una componente decorativistica tanto assicurata quanto raffinata.

Allo stesso modo, una volontà esplicitamente espressionistica era presente nelle impronte scavate per la combustione, come scavi e lacerazioni, nelle grezze assi di legno della fine degli anni Ottanta (si vede qui riprodotta, ad esempio, l’installazione per la mostra collettiva ‘ Passione’, 1987, nell’Oratorio di Santa Maria Maggiore ad Albisola).

Sembra invece che i presenti lavori, maturati attraverso il vero assorbimento di esperienze così intense di comunicatività primaria, abbiano fruttato una maggiore capacità sintetica ed espressiva.

L’espressività della forma, l’emanazione di un immaginario complesso in cui traspaiono dichiaratamente debiti e consonanti (ma non ‘citazioni’: piuttosto, il processo avviene per contaminazione interna in cui l’immaginario dell’artista si intreccia con altre culture), l’uso stesso del colore e della materia e, allo stesso tempo, la forma di un oggetto coniugano, nelle sue opere più recenti, un concentrato equilibrio tra tensioni espressive e valenze simboliche. Per di più senza nulla togliere a quella forte capacità presentativa dell’immagine che è una delle costanti delle opere di Gelsomino.

La stessa tensione sempre più evidente verso una dimensione plastica dell’oggetto pittorico sembra voler, infatti, imprimere ulteriormente la presenza del messaggio e della sua concreta volontà di agire e di ‘segnare’ lo spazio: in una dimensione che potrebbe chiamano ‘totemico’, ai limiti tra esperienza pittorica e plastica (limiti peraltro spesso superati, anche nelle dimensioni delle installazioni).

Complesse le motivazioni, dunque, che governano l’attuale ricerca di Gelsomino, e che la legittimano proprio nel rapporto stretto e inscindibilmente intrecciato tra fattori esistenziali e ragionamenti formali, tra esperienza comunicativa e memoria. Relazioni che si sedimentano in un immaginario figurativo che testimonia il vivere il ruolo di artista con forte consapevolezza della propria contemporaneità, svolto in tutti i campi, senza eccezioni e impedimenti culturali.

Lo stesso Gelsomino è del resto ben consapevole di questa peculiare dimensione. Per citare le sue stesse parole: “Il desiderio che ha naturalmente l’artista di fondere ricordi ed esperienze con l’inconscio e il piacere della scoperta è perseguito in modo maniacale”.

Credo che pennello e scalpello siano strumenti di comprensione individuale e collettiva dei mutamenti della contemporaneità. Ogni opera d’arte racconta l’essenza del periodo in cui è stata dipinta o scolpita. Certamente, se poi sarà anche un capolavoro, racconterà i valori universali dell’Homo Sapiens dalla sua nascita in poi.

ALESSANDRA MARINI
Filosofo dell’Arte

The modern Western society is distinguished by its markedly scientific connotations: where other cultures used and use mythology and religion in order to explain natural phenomenon, we make use of science. In reality, mere scientific explanations are not sufficient – they show us that all that happens can be, to a certain extent, foreseen and calculated, but this doesn’t give any ‘sense’ to what is happening; it rends it perhaps more familiar, but not for this more comprehensible. I believe that the task which concerns philosophy is different, that of describing the world, and I think that art should share the same aim – a patient documentation f the human condition: in this sphere all that which is possible can be assumed to be real, and all that which is real is conceivable.

This can, in theorical terms, open upp the road towards cultural relativism and, as a consequence, also ethical relativism, and I would like to express a few specifications in this regard. Both trvel well protected by the concept of tolerance but re, in fact, something different from this. For ethical relativism I intent the attitude which accepts the values of others as values which deserve not only to be tolerated, but also exalted. For ‘others’ I intent values different from those with which we’ve grown up, and which we live daily: values of other social groups ad of other human beings, in different eras and cultures. The ethical conscience of an individual who diligently cultivates ethical relativism tends to become ground upon which every irreconcilability is pacified: his glance becomes paradoxically similar to that which we imagine of a benevolent and comprehensive god. In the Wester world we are taking part today in a phenomenon, determined by certain constructors of ethical theory, which we could define as an ‘infinite proliferation of values’ in which it seem possible to be good with everyone and everything, and in which ever – new values can be scathelessly created, and ever-new subjects of new rights can be discovered.

In the end the whole world becomes covered by a network of appreciating gazes, so dense that nothing remains neutral. Nevertheless, all this cannot be possible: to claim so means to knowingly ignore the fact that different values are incompatible with one another, at least in regard to consequences. The creation or acceptance of ever-new values is not a sign of tolerance, but can be a generator of confusion. \

Can recognition of the other come about trough art, without constricting him into a stereotype of saintly exceptionality which, in my view, leads one to not respect the dignity of the person who must be accepted in all of his cultural, sociological and psychological nuances?

The temptation to respond affirmatively to this question is strong, but must take into consideration a correct analytical procedure, and nor should it be forgotten that a comparison, also severe, is necessary. This doesn’t exclude solidarity, but aims to avoid the respectfulness benevolence, which in reality becomes aseptic indifference, with which one relates to that which is ‘other’, considering it a species to save and catalogue, believing this to be exhaustive.

If one isn’t’ careful this can lead to a sub-culture of tolerance in which the other is compelled to be according to one’s own prejudices without giving him the possibility to be a real protagonist.

Art, like ethics, is – as Wittgenstein says – an attempt to give the world meaning: it should mot be seen in the ambit of an ethical – cultural relativism, but requires the taking of a position, identification of the enemy, the assuming of a responsibility. And this is the way of operating of the two artiste presented here, Giancarlo Gelsomino and Wendy Morrison, with whom I shared this assumption of responsibility as part of the International Workship of Art and Culture ‘Sculpting Time’ cited in the present catalogue.