GIANCARLO GELSOMINO


In Memoria di Giancarlo Gelsomino 1958 – 2023

ROBERTO VERACE
Docente a riposo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova
Linguaggi e tecniche dell’audiovisivo e Teoria e metodo dei mass media
Genova, 10 agosto 2023


Domenica 6 agosto, a sessantacinque anni, è deceduto Giancarlo Gelsomino, l’ultimo artista militante del secolo scorso. Laureato all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova nel 1984, Gelsomino amava dire di aver avuto due illustri genitori artistici: Gianfranco Bruno, direttore dell’Accademia Ligustica, colui al quale doveva l’avvio della propria carriera, e Rossana Bossaglia, colei che per molti anni ha seguito con amore e passione il suo percorso maturo. Benché gli ultimi anni così come l’ultimo istante della sua vita siano stati contraddistinti da profonda e dolorosa solitudine, la solitudine dei grandi provocatori, Gelsomino ha avuto una vita artistica di buon livello nazionale, internazionale e, nonostante la difficoltà di essere profeti a casa propria, persino provinciale. Ha esordito con un citazionismo dissimulante di grande effetto e di raffinata tecnica, per poi passare ad uno studio critico ambientale che lo ha portato da un lato a un’indagine politico sociale, dall’altro a un’analisi e a un approfondimento mediatico linguistico dal quale ha derivato i concetti e le suggestioni che ha tramutato, in quanto pittore e scultore, in forme sia endogene nella costruzione dell’immagine, sia esogene nella forma dell’opera. Riflessione politico sociale sulla condizione dell’uomo e dell’artista nella società, e parallela
indagine sugli strumenti contemporanei dell’espressione e della comunicazione: radiofonia, televisione, cinema e carta stampata. Un doppio binario sul quale splendeva il suo grande amore per la letteratura, stella polare del suo percorso, che gli ha consentito di elaborare il presente e preannunciare, definendoli, gli sviluppi formali di un paventato futuro. Non a caso, nel suo periodo maturo, Giancarlo ha dato anima e corpo all’impegno politico concreto dell’operare artistico: Palestina, Cuba, Brasile, Australia. Gelsomino è intervenuto, con strumenti estetici e culturali, per denunciare le condizioni politico sociali dell’uomo e dei popoli oppressi ma, al contempo, è stato in grado di assorbire le esperienze artistiche, culturali e spirituali dei territori visitati. É stato un periodo di grande attività e di grande impegno che lo ha portato ad acquisire nel proprio mondo grafico alcuni stilemi dei popoli primitivi e a dimorare per lunghi periodi lontano dall’Italia. Idealista e sognatore come ogni buon artista che si rispetti, nella seconda metà degli anni Novanta, è stato vittima della lusinga del Governo di turno e della sua propaganda a buon mercato che prometteva, agli artisti e agli intellettuali residenti all’estero, con tanto di decreti e di pomposi squilli di trombe, che se essi fossero volontariamente rientrati in Italia il Governo Italiano si sarebbe adeguatamente curato di loro e del loro lavoro. Niente di più di una delle tante promesse demagogiche che tanto ridicolizzano e indeboliscono questo nostro stravagante Paese. Rientrato, quindi, in un momento di profonda crisi della società italiana e, come da italica tradizione, lasciato abbandonato a se stesso e ai propri scarsi mezzi derivati dalla rinuncia delle precedenti certezze, Gelsomino di lotta e di purezza ideologica non poteva piegarsi e accettare quei compromessi – in realtà poco più che cialtronaggini – che promettevano molto ma garantivano solo una iniqua e soffocante sopravvivenza. In una siffatta situazione, non poteva che iniziare un periodo di difficoltà, di lenta discesa agli inferi, segnata da rarissime mostre e da un sempre più difficile rapporto con la società, artistica e no. Gelsomino, volente o nolente, si è visto costretto a ritirarsi in una casa di proprietà della madre al Pero, a Varazze, riviera ligure di ponente – periferia della periferia periferica dell’Impero -, nella speranza di rinvigorirsi e riprendere il cammino. Ma la società, e il mondo dell’arte che ne è un derivato, erano in profondo cambiamento. Non vi erano più i grandi storici e critici del Novecento, dotati di grande cultura e sensibilità, non vi erano più i galleristi, sapientemente intersecati da mercatismo e mecenatismo, non vi era più un collezionismo intelligente e lungimirante, non vi era più una differenzazione del mercato. La classe media che comprava opere d’arte stava scomparendo. Nella quasi totalità, le gallerie indipendenti erano state annientate. Erano rimasti solo i grandi capitali e le vendite spettacolari da agenda setting. Il pensiero unico stava iniziando a far bella mostra di sé. Il mondo del mercato oggettistico estetico – in epoca moderna, l’arte e il mercato non hanno mai
avuto nulla a che vedere – si occupava solo di articoli – principalmente coaguli di materia, opere d’arte pochissime – di grandi dimensioni. Nonostante tentasse di ipotizzare e proporre opere e mostre di ampio respiro internazionale, Gelsomino era sempre più isolato. L’ambiente pseudo artistico e la società erano ormai sordi al proprio dire, disattenti e infastiditi soprattutto dai provocatori di un passato ormai remoto. L’artista, allora, ha compreso che se non è l’opera in sé di grande qualità dimensionale, lo può essere il ciclo. Negli ultimi tredici o quattordici anni, pur nella solitudine più incomprensibile e tormentata, nelle difficoltà più avvilenti egli ha progettato e realizzato il proprio capolavoro sconosciuto: un ciclo di opere dedicate al mondo dei lepidotteri, tutte in formato cm. 65×65, che negli ultimi giorni della sua vita ha superato l’impressionante numero di più di duecentosettanta pezzi. Un’impresa eccezionale, una sfida all’omologazione, una ragione di vita. La narrazione, la creazione poetica, fil rouge che percorre tutta la sua opera, di un mondo di instabilità, di precarietà, di tensione, di contrasto violento, di conflitto che trova la sua ragion d’essere proprio nell’esistenza del rapporto, del difficile se non impossibile dialogo individuale e sociale.
Con questo breve e incompleto ritratto, dolorosamente saluto uno dei miei pochi amici e il compagno di tante avventure e concludo con le parole che spesso pronunciava e che tanto amava: E se vale la pena di rischiare, io mi gioco anche l’ultimo frammento di cuore. Hasta la victoria siempre! (Ernesto “Che” Guevara).