GIANCARLO GELSOMINO
Testi critici per la mostra Le tue mani su di me 2007
GIUSEPPE MARCENARO
FRANCESCO DENINI
GIUSEPPE MARCENARO
Critico d’Arte e Giornalista Professionista
I rebus dell’ Artista
Vado sempre più convincendomi dell’inutilità delle parole scritte o dette davanti a un quadro. L’opera sussiste in quanto tale e una artista vale per sé, al di là ogni qualsivoglia collocazione “storica” o “critica”.
E adesso, come, una nemesi, contraddicendomi, scrivo un testo in omaggio a un artista. È una nemesi che mi sono cercata, da quando ho preso a guardare la opere di Gelsomino con occhio (e sentimento) diversi.
Ciò che ci distoglie da un artista non è la sua opera o la sua persona – se l’artista è un nostro contemporaneo – piuttosto la nostra disattenzione. Generazioni di artisti sono rimaste sullo sfondo no perché l’opera loro mancasse di volare intrinseco. Semplicemente perché era basso il livello di attenzione che i contemporanei vi avevano riservato.
Il valore di un artista è poi imperscrutabile, ha spesso difficili termini di paragone. Non credo, guardando la produzione di un artista, si possano inventare fittizie definizioni: innovatori, rivoluzionari, imitatori, continuatori, eccetera. Così come obbligatoriamente sembrerebbero dovervi essere supposte ascendenze, scuole, filoni, eccetera.
A me interessano quegli artisti che interpretano – a costo di giocarsi la vita – il proprio tempo, facendo confluire nelle loro opere le contraddizioni della contingenza in cui la sorte li fa vivere. E su queste contraddizioni sedimentano l’esperienza della propria esistenza: i dipinti antichi e moderni, le tracce di vita remote e prossime, le felicità e le sventure, i libri letti appassionatamente, le contrarietà e anche quel tanto di mistero inspiegabile che c’è nel comportamento delle persone, magari a un primo acchito, secondo un giudizio impreciso, da considerarsi estranee al proprio mondo e scoprir poi che si trattava di un abbaglio viziato da una affrettata quanto superficiale impressione.
L’opera di un artista – coniugata ovviamente al talento – a questo punto è capace di dirci molto di più con il suo ineffabile silenzio i quanto possano imbonirci, cercando di convincerci, squadroni di “addetti ai lavori”. Come l’artista è solo con l’opera nel suo divenire, così chi ha contempla compiuta è solo con se stesso: uno la riflessione dell’altro, in un gioco di rimandi-emozioni e di suggerimenti non detti. E l’opera frapposta come uno specchio oscuro che emani enigmi.
Moltissimi critici e “addetti ai lavori” hanno scritto e testimoniato il valore di Giancarlo Gelsomino. Che io riconfermi il giudizio è tanto pleonastico quanto marginale. A me dell’opera di Gelsomino interessa, come ovviamente la intendo io, il groviglio creativo, la “narrazione” emozionale che in me riesce a suscitare. Non perché trovi difficile aiutarmi con i canonici riferimenti.
Piuttosto perché l’originalità sua sta proprio nel volersi impuntare a tutti i costi nell’epoca nostra con la propria traccia artistica, insistita, frenetica, quasi ossessiva e, fortunatamente, poetica. E per mezzo di questo cerca d’andare alla radice del senso delle cose. Io credo ce Gelsomino dipinga non per “produrre” delle opere d’arte, né per chiedersi perché il mondo sia fatto in un modo giusto o sbagliato. Lavora con convinzione perché al fondo del suo scavo esistenziale deve germogliare ogni girono, assillandolo, il più esaltante e sorprendente quesito, che non è né filosofico, e neppure esistenziale. Semplicemente la sconcertante meraviglia del fatto che sia capitato a lui, proprio a lui, di dover aggiungere misteri al mondo. Perché, a ben guardare, un artista che dia testimonianza della propria presenza, non svela nulla che sia dentro all’astrale pensiero che è impossibile pensare. Permea, con le sue opere, la nostra esistenza con ulteriori trappole sublimemente ingannevoli, capaci di aumentare la nostra ansia davanti al mistero di cui siamo a un tempo creatori e vittime. Colpevoli e innocenti di un delitto, irrisolvibile come la più complicata sciarada o il più intricato rebus.
Sono arrivato al punto. Per quel che possa contare. Cosa sono per me le opere di Gelsomino. Appunto la sciarada dei tempi e i rebus dell’esistente. Misteri che si devono decrittare, sussurrati talvolta in maniera roboante ed eccessiva. Ma non aspettiamoci da lui, dall’esecutore, una traccia per svelare l’ensemble creativo. Sono certo che Gelsomino potrebbe aiutarci a capire, indicandoci una strada sensibile per agguantare le tracce sovrapposte delle sue crete forme, proporci una ipotetica “lettura” di un suo dipinto. Non fino all’estremo, però. Tanto per lui, e soprattutto per chi i suoi dipinti contempla, sussisterà “un resto”, una zona d’ombre, un sottile sentiero di imponderabilità che ci indurrà ad andare oltre il senso medesimo dell’opera compiuta. Questa è l’avventura di sorprendere il “quid” che sta sospeso tra l’opera d’arte e il mondo che l’ha prodotta, ma che di quel mondo non fa parte, facendo ad un tempo parte di diritto. Appunto il mistero, l’integrale aggiunto che non esisteva prima del suo compimento sotto forma di colore.
In quel “resto” ha cercato più volte di entrare. Perché l’impatto provato per la bellezza di un’opera considerata riuscita, ne sono certo, non basti neppure a Gelsomino. A testimoniarlo è sufficiente il suo impegno totale e totalizzante nei confronti delle materie che si fanno arte. Non soltanto dipinto, ma anche scultura, oggetto “d’affezione”, forma bizzarra, millimetrica ostinazione, orologeria celeste… in più il consapevole stupore dell’artista davanti a qualcosa che “ha creato”. Che no esisteva. E di cui soltanto Gelsomino può sapere passabilmente donde venga. Ma l’autore medesimo è anche vittima consapevole del suo rebus, della sua evocata Sfinge che gli impone l’enigma non svelabile.
In quella zona d’ombre che si autosuscita dalle proprie opere, Gelsomino ripercorre i suoi miti, le aberrazioni della memoria, le esaltazioni e le cadute. Opere come catarsi nelle quali confluisce l’esperienza contemplata come una visione, custodita in maniera quasi gelosa. Dosata nei registri della rappresentazione. Sono allusioni per farci intuire il senso e il significato di una ossessiva ricerca, il senso di se medesimo attraverso la “produzione” artistica. Sono i suggerimenti, i simboli, per farci scorgere ciò che ha voluto configurare nella sua indagine.
Per queste ragione riconfermando ciò che dicevo all’inizio, e di più me ne rendo conto proseguendo nella scrittura, capisco che le opere di Gelsomino potrebbero veramente far a mendo di un testo allusivo a chissà quale verità o svelamento.
Secondo me no importa se queste opere figurativamente trattano di storie dissolte o fantomatiche. Il loro carattere è sempre quello di un’evidenza visiva, tattile, come se, opera dopo opera, in una “narrazione” progressiva, ci inducessero a passare con l’occhio e con i polpastrelli su una superficie che vuole dichiararsi per se stessa, prima e al di là di ogni significato.
Credo che per Gelsomino il senso della superficie, nei vuoti e nei pieni, sia una specie di guida occulta nel continuo vagare verso la direzione esistenziale da prendere. E deve essere questo uno dei piaceri o dei tormenti dell’artista, i medesimi congeniali ai nomadi portati sempre a percorrere sentieri tortuosi, con percorsi punteggiati da esplosioni che “ricostruiscono” e “fanno rivivere”, recati dal vento e dal ricordo, le vicende antiche coniugate a quelle contemporanee: evocanti storie, dettagli, aneddoti, accenni, colori…
Questo procedere fa produrre a Gelsomino opere d’arte attraverso il tempo, avanti e indietro, nell’illusione certa di rinvenire, ritrovandolo, il segno primordiale coniugato a quello futuribile. Una progressione che sta tra l’infantile e il meccanico. Proprio come se la pittura fosse il risultato di oliatissime, sottili e oscillanti ruote dentate di un orologio universale. Opere cadenzate, chiuse, esplodenti in se stesse.
Cone lo immagino io Gelsomino si muove da nomade della pittura. Penso che, al di là di quanto d’antico o rivoluzionario o eccentrico possa significare per lui il termine nomade – come suono e significato – gli evochi immagini di bontà, di gente inerme, di uomini votati esclusivamente alla cura del proprio viaggio. Andare per andare. Il nomade è colui che sguscia dalle maglie del controllo, colui che evade, si sottrae alla persecuzione. Nelle opere di Gelsomino c’è un tocco di lieve santificazione per quest’uomo che fugge e si emargina; l’idealizzazione di qualcuno che si fermi estatico davanti alla misteriosa e coinvolgente sacralità dell’universo. La blanda consacrazione di ombre che hanno difficoltà a guardarsi vivere. Ingannate dal rovello dell’esistente. Vittime non di una incontrollabile e sovrana premeditazione, ma di una condizione.
Ciò che è non è altro che ciò che è.
Curioso quanto i rovelli nelle “creature” di questo artista, adducendoci i rebus annidati nei “resti”, nelle zone d’ombre cui prima facevo cenno, ci portino verso la giacitura della terra, verso idealizzati deserti primordiali, gruppi spontanei, pitture primitive, musiche aleatorie, mondi involontari, immagini di folli saggezze popolari.
Osservo con qualche sgomento quanto il ritmo imperterrito del tempo si sovraccarichi su queste opere, evocanti ricordi e terrori notturni vissuti con occhi esterrefatti. Scenari inspiegabili alla torva opacità dei nostri tempi. Troppi i nomi di luoghi, di gente, di fiumi, di rovine… affioranti dai “resti” di questi dipinti. Visioni irte, inaccessibili. Grovigli, intrichi di guerre, conquiste, schiavitù, desolazioni… Tale è la sovrabbondanza chi ci si sente obbligati a rompere i sigilli dei misteri più alti. L’impresa è irragionevole, rischiosa. Come quella vertiginosa e terrena che si pone un uomo affrontando un viaggio attraverso una terra sconosciuta.
Ritorniamo allo sguardo, alla contemplazione delle opere, alla forma primordiale, al segno irriducibile che depista ogni aspirazione alla conoscenza. Ma come mai vogliamo conoscere l’oltre? Un oltre propone un ulteriore oltre, in una progressione infinita senza esito? La realtà golosa vuole espandersi, conquistare quell’oltre che è fatto solamente di ombre e polvere. Un vuoto dentro un altro vuoto.
E se le opere di Gelsomino fossero la carta geografica, il diario on scritto e sognato, del nostro impossibile viaggio di nomadi moderni?
La mappa del nostro andare che si lascia continuamente intralciare da preoccupazioni artistiche? Vivere è di gran lunga più difficile. E semmai uno spiraglio sussiste è quello che portiamo inciso dentro al cuore come un tatuaggio che ci rammenta la nostra inadeguatezza.
E l’artista documenta l’andare insensato, lo sgomento e i soprassalti, oltre gli stili, oltre le mode, oltre il fastidioso, oltre l’inutile…
Un artista credo raggiunga il suo scopo quando riesce a sommuovere i ritmi dei nostri linguaggi interni. Dei nostri pensieri che non riusiamo a pensare.
Trovo nell’opere di Gelsomino la cadenzata ostinazione a uscire del groviglio, a farsi libero dalle ossessioni del mondo. Ammonimento che viene a noi, contemplatori laici. L’opera che viene a noi, contemplatori laici. L’opera sua sembra proporsi come un trip, non surrogato tuttavia da alcol, mescaline, fumigazioni varie e d’altri filtri allucinatori.
È un’opera capace di idealizzarsi in una realtà virtuale che consente l’abbandono all’erraticità del pensiero. Che poi è l’esaltante contemplazione, impietosa e dolorosa, della condizione in cui tutti siamo calati.
FRANCESCO DENINI
Scrittore e Compositore
– Eclisse, voce del suono
Me la cavo con tre favvanculo, in nome dell’antica amicizia, e un mandato all’ultimo momento; questo, il risultato di una chiamata di Giancarlo Gelsomino, …da un’infinità di tempo eclissato, e riapparso adesso, in data giovedì 27 settembre 2007 (passo a casa, la sera, con la normale stanchezza di chi lavora), per la sua Eclisse. Si eclissano. Riappaiono. Dalla lontananza si colgono tratti di una nostalgia personale che viene meno quando si ritorna a contattarsi. Qualcosa sempre un po’fallisce nella comunicazione, e pure qualcosa comunque traspare, tra i fumi della ‘vita allo spiedo’ e i modi dei reduci da chissà qual cataclisma. Questo accade ormai da anni con Gelsomino; diversamente però, anche con Wendy. Il titolo con no sarebbe più azzeccato. Eclisse. Il sole perde la sua luce in virtù di un evento per milioni di anni inspiegabile. Perché è terribile perdere il sole nel cielo. Per simbolo e inveterata tradizione è il padre abbandonico, che lascia un’umanità terrificata, spaventata dal freddo e dai latrati dei cani selvatici e dei lupi, i quali, degne divinità della foresta, legano il loro potere sull’uomo là dove terra e luna si accordano sotto il dettato di Persefone, governante il mondo con i suoi sbalzi d’umore. Dal regno del sotto e del dietro, si solleva un suono di piedi pestati e di elettricità, un gemito che si espande e prende alla gola, ai denti, come un terribile pianto di neonato.
La voce di Francesca si fa elettrico come nei migliori film d’esorcismo, si fa efebica e dolce come la giovanissima Jennifer Connely in Phenomena di Dario Argento, in mezzo a un liquame indistinto di pezzi di corpi, vomito, bulbi oculari e materiale escrementizio.
Tutta un’iconologia della notte imperante. Il giorno è un inganno paranoide, la calma mascheratura di un complotto bastardo che, trapela il celato dei corvi dei campi di Van Gogh. Ma nulla da fare, con noi figli de non-sole. La consuetudine ci rende calmi, ‘a noi non ci fregano’.
La musica è l’evento si compie. L’atto assoluto ha la sua attuazione, la sua causa efficiente (l’assenza del Padre), la causa materiale (l’arco di suono di dieci minuti circa), la causa finale (l’emersione del simbolo), la causa formale (l’assenza del tempo).
Prometeo spezza il legame ed esplode l’ossessione, il delirio, la melanconia, l’orgoglio e l’immancabile crollo delle energie, il sentore di una ragione che però non sovviene, non basta a sostenere le Erinni. Il sole si fa nero, e siamo peggio che morti, siamo dannati a un cataclisma del nulla che lascerà spossati come un elettroshock. Nei cataclismi del parricida-di-massa non manca, per altro, una tipologia rassicurante, nell’iconografia dell’animation darkly e del caroon noir, i Dieter Lumper, Hellblazer, Denis Cobb, Demian, Diabolik, Kriminal, Satanik, Misterious, Mister-X, Raptus, Sadik, Spettrus, Tenebrax, Doctor Davis …tutti mondi dentro l’eclisse di luce. Anche sabato si leggono solo fumetti dark. Il sax si innesta sullo sfondo elettronico, come il piano sul ritmo dei tamburi. Dalla giungla ancestrale a quella metropolitana, non c’è che un passaggio di timbro, alberi e grattacieli sono al pari solidali con l’eclisse. Qui giù da noi non c’è storia: Dio c’è ma non si cura di noi. Quindi, l’eclissiamo, il massino d’effetto poltergeist, tre volte vaffanculo al sole, a via il simbolo emerge. Per altro, era accaduto anche nello Stabat Mater di Wendy, l’impero delle madri là era alla lamentazione del progetto deposto, qua e alla maledizione del dio abbandonico, tutti, padri, madri, figli gridano: “Padre, Padre, perché mi hai abbandonato!”
Non c’è posizione migliore di questa emersione del simbolo. Tirare fuori, vomitare la merda dalla fogne, anche questo è arte. Lasciar erompere il simbolo nella sua crudezza e persino nella sua scontatezza. Il sax urla senza vere sorprese? Il ritmo è quello del rituale più ossessivo? Poco importano le sfumature. Libera lo stomaco, e poi si starà meglio. (Meglio per l’alcohol, che per anoressia). E qualcosa di brutto è comunque meglio del nascondimento, dell’imbarazzo ossessivo. Il sole è sparito, cazzo, e noi sian nella peggiore delle merde!