GIANCARLO GELSOMINO
Testo Critico per la Mostra Della Dissimulazione 1983
GIANFRANCO BRUNO
Direttore e critico d’Arte
“… non vi calate abbastanza nel’intimo della forma non la inseguite con sufficiente amore e perseveranza nei suoi avvolgimenti e nella sue fughe”. Balzac, Il capolavoro sconosciuto.
Struttura – segno – immagine: voglio dare subito tre indicazioni di lettura del lavoro di Gelsomino affinchè non si indulga troppo al fascino del foglio – e poiché questo lavoro si propone sì come un’entità artistica, ma da una posizione del tutto estranea alla consueta manipolazione istintuale dei mezzi della cultura. Ecco, penso che l’opera del giovane artista rifiuti una critica in chiave di ricerca della sua espressività, e anche di riporto della creatività alla sua matrice esistenziale.
E’ una posizione molto attuale: un distacco che è forse un modo più umano di considerare la vastità dell’esperienza, sulla quale l’arte è solo un aspetto, uno, della, riflessione, e della ricerca di senso. Non dico che non siano legittime le contaminazioni tra arte e vita, ma certo il distacco non è un modo di eludere, e non è detto che l’identificazione necessariamente significhi impegno totale nei riguardi della terribile verità della esperienza. Che la zona del distacco – laddove la mano struttura gli schemi rarefatti della mente – sia dominio del silenzio, significa altresì che gli chi dell’esperienza vi giungono taglienti, se hanno attraversato la distanza, che pare invalicabile, tra l’evento e la forma. E che i segni vi hanno certamente un’esistenza astratta, rispecchiandosi decantati nel loro astratto valore, leggibili nella loro verità, simulata talvolta nella congestione dell’identificazione patetica.
Nella zone del distacco prende corpo l’idea della struttura, questa sì come volontà d’esperienza – astratta, mentale – tenace volontà che oppone all’indecifrabile congerie degli eventi i nessi lucidi dell’immaginazione e del pensiero. Tra struttura, segno e immagine non si include violenta la cosa, né s’insinua l’alone patetico delle presenze, dolorose o felici: l’assenza è il connettivo dell’immaginare, tradotta in pagina vibrante, sottile nelle modulazioni come un palinsesto sul quale il tempo impietoso ha stampato il suo fluire. Che questo fragile schermo attui un segreto richiamo alla storia, testimonia la concretezza di quel separato immaginare: esso svela la sua appartenenza alla storia non per via di cultura, piuttosto per fede nella testimonianza di un antico, altro immaginare, che ha depositato i suoi segni trascolorati dell’età sulla materia resistente più della carne passata nel tempo: e in esso ancora è forta la vita astratta della mente, vis i propone ancora un più resistente esistere del pensiero oltre l’affanno della storia.
La storia dei fatti e la storia della mente: il relativo e l’assoluto. In questo senso va dunque letto il repertorio ideale di immagini storiche che l’artista assume in un’idea generale di struttura.
E il rimando conseguente all’indecifrabilità della scrittura: come una testimonianza effettiva della presenza operante in un flusso temporale che può, per la perennità dello scrivere, oltrepassare la storicità dell’atto. Né la scrittura altro può ritenersi che una delle dimensioni strutturali dello spazio mentale, lasciando alla sua trasparenza il segreto della lucidità o passione.
Nel concetto di “maniera”, assunto nella significazione più esatta di sublime dissimulazione di un pathos soffocato perché senza esiti, di un ardore di realtà imponente a consumarsi, coercitivamente ritirato nel distacco disperato del pensiero, si alimenta il lavoro dell’artista.
E qui non vale indagare quanto le ragioni individuali sospingano la scelta, se certo essa coincide con un’impotenza storica dell’arte a congiungere le sue ragioni di assoluto con le ragioni sociali del suo esistere. Può solo dirsi che quando l’esperienza conduce ad un approdo la cui attualità è flagrante, esso è veritiero non solo in senso individuale, ma diviene spia improvvisa di una condizione.
… non vi calate abbastanza nell’intimo della forma, no la inseguite con sufficiente amore e perseveranza… il museo immaginario dell’artista riprende non a caso l’area storica della “maniera”, si rivolge in prevalenza a modelli in cui la tensione intellettuale ed emotiva raggiunge un’intensità febbrile. Ma quei modelli sono per lo più assunti per la loro caratterizzazione stilistica, per quel prevalere del “velame” dello stile su quella componente esistenziale dell’esperienza artistica che la critica più acuta e l’analisi attenta delle testi monianze storiche e letterarie ha indicato come poderosa ed eccentrica. Rivelando altresì le ragioni quel “distacco” che dissimula un doloroso pathos nella paradossale, bizzarra vicenda della forma. L’attéeggiamento “manierista” coinvolge in queste opere la stessa idea della struttura: così l’intelaiatura spaziale della pagina, il contrappunto esasperato delle costruzioni, tradotte in un ordine che altro non è che la metrica stessa dell’immaginare. E l’inclusione del modello figurativo rappresenta la scadenza emozionale cui inevitabilmente l’artista doveva pervenire nel suo aggirarsi, fuori della dimensione esistenziale, sui materiali della storia. Un legame con la contingenza dell’esistere, spinto, com’è impossibile che non sia, da una ricerca di senso all’inestricabilità dell’esperienza. Non a caso la figura reale dell’amore appare dissimulata nell’arretramento alla storia dell’immagine, e il suo fantasma ideale conchiude la serie del museo immaginario, non epitome di immagini astratte nella loro lontananza, ma fantasmi del tempo alla ricerca di una storicità smarrita nel tempo. Per cui la vita vera, la ricerca del tempo perduto e del tempo presente, si identifica nella pratica della ricostruzione di quell’immagine che è distacco e insieme la più alta identificazione patetica con la materia del proprio immaginare.
Se la pratica dell’immagine non risolve la contraddizione tra l’anelito verso l’oggetto cui l’arte come l’amore tende, e l’improbabilità della sui immagine reale, l’arte oppone il polo della persistenza, oltre l’ambiguità del rapporto tra l’oggetto e la sua immagine, del fantasma astorico, mentale della forma. Che questo fantasma rinunci a rifondarsi totalmente sulla esperienza, che si ritiri nella cultura della mente, attesta una disperata volontà di superare l’attuale insignificanza degli strumenti del comunicare rispetto al problema ontologico dell’arte, insieme una fede potente che ontologico sia davvero il problema dell’arte: come la storia attesta. E il perdurare dell’oggetto, insistente sul suo fantasma per l’eccedenza stessa dello stile, per il suo infiltrarsi duraturo negli avvolgimenti e nel le fughe della forma, è colto nel modello antico come persistenza del volare che unico attribuisce verità all’astratti immaginare.